pulsantepulsantepulsantepulsantepulsante
barraracconti
Cliccate sui titoli dei racconti per leggerli. Vi auguro una buona lettura...

Il Giro dei Colli

Ci sono città vicine al mare, ai laghi o ai monti. La mia ha vicino le colline, e il giro dei colli è l’alternativa più rapida al giro al mare, ai laghi o ai monti. Pure per me, che guido per lavoro, e il fine settimana la macchina dovrei averla a nausea. E se in primavera l’ascesa ai declivi che ci si adagiano di fianco scopre una natura che si sveglia e si fa bella, in autunno hai l’incanto della natura che dorme, nuda, coperta dalla nebbia e dal freddo.

Anche l’autunno però ha giorni di sole, con colori così caldi da sembrare appena dipinti, quasi gocciolanti. Era uno di questi, un sabato abbagliante, e, vestito del mio taxi, ero partito per godermi la giornata. Da solo, per non spartirla con altri che me stesso.

Alle tre del pomeriggio il sole va spegnendosi, come se avesse brillato troppo prima, e fa posto a una bruma leggera. Uno zucchero filato opaco, che a finestrino aperto puoi sentire sulle labbra, in bocca, e quasi mastichi, e trovi abbia un buon sapore. Anche se non ce l’ha.

Guido piano, protetto da una coltre che man mano prende corpo e si fa più spessa, al punto da poterla indossare, come un cappotto. L’auto sembra essersi infilata in una sua manica. Una manica senza uscita.

A un tratto oltre il vetro si delinea una sagoma liquida, che muove le braccia a mo’ di odalisca. Cerco di distinguere quella specie di ombra cinese. L’ombra si avvicina, è davanti; inchiodo. In un attimo è dentro, seduta, si toglie il cappuccio dalla testa. Sembra un fuggiasco in cerca di asilo. Benché stralunata, la faccia non mi è nuova. E’ Ranzi, un compagno del liceo.

“Che ci fai qui, con questo tempo?!” dice, come se fosse lui ad aver raccolto me, e non io lui.

“Che ci fai tu?” replico ripartendo “A piedi, in mezzo alla strada.”

“Due passi.” risponde frizionandosi le cosce “Guidi un taxi?” dice mentre si guarda intorno, quanto un cliente in un negozio in cui non ha mai messo piede.

“Sì… Ma non sono in servizio.”

“Bene. Così non devo pagarti la corsa.”

Gli sorrido. Porta guanti da sci e montgomery, simili a quelli che portava a scuola. Potrebbero anche essere gli stessi. Che senso abbiano poi i guanti da sci in uno che non solo non scia ma nemmeno mi risulta essere mai stato in montagna d’inverno, è particolare che sfuggiva allora e continua a sfuggire oggi.

“Come butta?” chiedo, mentre un vapore compatto ci inghiotte e ci sputa a ogni catarifrangente illuminato dai fari. Le foglie secche sulla strada crocchiano sotto le ruote come la crosta del pane caldo di forno.

Sospira; butta male. E’ stato lasciato dalla ragazza con cui stava dal liceo, una piccoletta che, a vederla, si sarebbe detta più dolce di un confetto. Forse il confetto è arrivato alla mandorla, che spesso capita essere amara. Specie nell’ultimo. Ma non c’è problema, dice, tutto ha una fine. Meno male, l’ha presa bene. Anche la vita, aggiunge. No, non l’ha presa bene.

“Non riesco a vivere senza!” sbotta, e scoppia a piangere “Sono ore che cammino! Che cerco di farmene una ragione!… Ma non c’è mai una ragione perché un amore possa finire!”

Riccardo Cocciante. Le stesse parole. Siamo figli delle nostre canzoni; le citiamo inconsciamente, pensando di essere originali. E invece sono copie, e noi replicanti.

“Okei, adesso andiamo da qualche parte a fare due chiacchiere.”

“No, portami a casa.”

“Perché vuoi andare a casa?”

“Hai ragione. E’ meglio che mi porti in ospedale.”

“Guarda che non è così grave.” ribatto “Non si muore per amore.” E’ Lucio Battisti, lo so. O sono le canzoni che ripetono le parole di tutti i giorni?, sicché nulla è veramente originale. Nemmeno noi, le nostre vite. Invertendo i fattori, il risultato non cambia.

“Voglio andare in ospedale.” ripete.

Ranzi era un eccentrico. Comprava i libri in edizione economica, le pagine appese a un filo di colla secca, e ne scorreva le righe quasi senza aprirli, per non correre il rischio di spaccarli. Poi li leggeva andando in bicicletta, dove gli era capitato più volte di cadere e di rompere libro e bicicletta.

All’improvviso si toglie un guanto. Schizza rosso dappertutto, come se avesse aperto una bottiglia di pomodoro. E’ sangue. Si è tagliato le vene.

“Non voglio morire.” singhiozza.

Pigio sull’acceleratore. Non so come ci arrivo, al pronto soccorso, con la nebbia che avvolge anche i pensieri, quanto l’ovatta il più fragile dei colli. In ospedale lo ricuciono, gli fanno una trasfusione. Quando salgo in camera lo trovo sdraiato sul letto, supino, la faccia bianca abbandonata sul guanciale. Sembra uno schizzo in bianco e nero anziché una faccia, un quadro a china anziché una federa con un volto. Lo schizzo apre gli occhi, mi vede.

“Sono uno stupido.” sussurra con un sorriso ebete.

Faccio di no con la testa, poi indugio, annuisco, prima piano, poi più forte, e scoppiamo a ridere.


Torna in cima alla pagina


Il Mare Addosso

Quando Varda glielo chiese, conosceva già la risposta. Era come chiedere a un bambino svogliato se voleva andare a scuola, o a un beone di pasteggiare a minerale, o al più spilorcio degli avari di far beneficenza. La risposta era no; cento, mille volte no.

Malgrado ciò glielo chiese ugualmente, per gentilezza, per affetto verso il proprio uomo, o per un bisogno di conferma, di rassicurazione, per risentire da lui la risposta più scontata. A riprova che la vecchia quercia era sempre quella, sempre lei, chiusa a ogni novità che non fosse il fardello del quotidiano, l’affrontare le cose da fare una dopo l’altra, senza posa, come le pietre di un rosario la cui fine avrebbe coinciso con la sua.

“Loano, domenica vieni anche tu al mare con la parrocchia?” domandò al marito a desinare, allungando le palpebre a mo’ di grimaldello, per scardinarne la serratura.

Loano mangiava pasta e pomodoro, e raccoglieva col pane le gocce di rosso che la pasta non tratteneva e ricadevano nel piatto, pesanti quanto gocce di sudore. Il pane era un casereccio che le dita nere e grinze facevano più bianco di quel che era. Mangiava e guardava la moglie e la corona dei figli riuniti intorno al tavolo -alcuni, perché la maggior parte ormai era fuori casa, coniugata con prole a sua volta-, nonché i nipoti più piccoli, che i figli sposati lasciavano alla nonna perché li accudisse, e Filippo, il cane di famiglia, l’ennesimo nipote, solo con un numero di zampe diverso. Anche se l’ultimo erede camminava ancora su quattro.

Varda gli leggeva nelle righe della fronte la lista delle scuse che avrebbe accampato. Una lista al cui cospetto quella della spesa settimanale degradava a pensiero della sera, a fioretto prima di addormentarsi. La legna da tagliare, per poi essere raccolta e portata nel casotto, il fieno da affastellare, l’erba da falciare, gli alberi da potare, la frutta da raccogliere, le macchine operatrici da preparare all’uso, le proprietà, case e terreni, a cui attendere, col corollario di incombenze che queste richiedevano. Tutte attività da sbrigare la domenica, che la settimana, sabato compreso, era consacrata al lavoro vero e proprio. Quasi che quel po’ po’ di occupazioni festive non fossero lavoro. Altro che giornata dedicata al riposo, a ringraziare Dio per aver creato il mondo e i suoi abitanti. Per ringraziare Dio era sufficiente l’ora della messa, sottratta alle faccende domenicali come una fetta di polenta e formaggio alla sagra del patrono. A gomitate e spintoni. E nemmeno la moglie, perciò, era mai libera da impegni il dì di festa, che avrebbe dovuto cucinare per il marito e i figli chiamati ad aiutarlo, e avrebbe finito per dare una mano lei stessa.

Loano era il fabbro del paese; anzi, dell’intera valle. Nella sua officina si faceva di tutto, dalla costruzione di gazebi, cancelli, infissi, attrezzi, alla riparazione di vecchie auto, camion, macchine agricole e finanche elettrodomestici. Mani nere e grinze per il pane, ma mani d’oro per il ferro e per ogni rottame da aggiustare capitasse a tiro.

Aveva respirato ferro e montagna da quando aveva aperto gli occhi. Era entrato in officina da bambino, durante le vacanze scolastiche, come un gioco, che ben presto era diventato un lavoro finita la scuola dell’obbligo, quando l’insegnante gli regalò la promozione per non farlo ripetere l’ultima classe all’infinito. Sapendo che, per forgiare il ferro e riparare cianfrusaglie, lo studio non serviva.

Il lavoro lo occupava dall’alba al tramonto, con sporadici intermezzi familiari. Anche far l’amore con la moglie era una specie di lavoro, con cui dare alla famiglia nuove braccia, nuova ricchezza. Un compito affrontato certo col più grande trasporto, ma assolto pure, almeno in parte, con l’intima convinzione di adempiere un dovere. Spesso da soddisfare fra una raffica di fiamma ossidrica e l’altra, per non perdere i giorni fertili della consorte né quelli gravidi di lavoro in officina. Un salto in branda a qualsiasi ora, a volte senza neanche spogliarsi, o senza togliersi le scarpe. In ogni caso, mai i calzini. Ci dormiva, coi calzini; ci stava davanti alla tivù, in bagno, perfino sotto la doccia, quasi fossero una seconda pelle.

Ed era arrivato a sessant’anni, con dieci figli e dieci nipoti. Per il momento, poiché essendo i figli prolifici quanto il padre, la conta dei nipoti andava aggiornata di anno in anno. Sessant’anni senza un giorno di riposo, o di vacanza che dir si voglia. Parole sconosciute, per non averle mai né studiate a scuola né praticate nella vita. Anche perché, sapendo solo lavorare, e, tutto sommato, divertendosi a farlo, in vacanza si sarebbe annoiato. Solo per il suo matrimonio e per quelli dei figli si era preso una domenica di “festa”, che già a sera l’officina reclamava e i lavori in campagna incalzavano. Il riposo era ammesso solo per malattia. L’unico datore di lavoro abilitato a concederlo.

“Allora?” lo sollecitò la moglie sbocconcellando una mela “Ci vieni o no al mare con la parrocchia?”

No, si apprestava a udire la donna.

“Sì.” rispose il marito “Ci vengo.”

Alla consorte andò di traverso il boccone. Cominciò a tossire convulsamente, lacrimando dallo sforzo, finché il cibo, ritrovata la strada giusta, non la lasciò con la faccia impagliata di chi ha assistito al compiersi di un miracolo. I figli, a loro volta, sgranati gli oblò sul patriarca, erano rimasti di stoppa, le bocche aperte con quel che c’era dentro. Filippo, visto il resto della famiglia sbalordire, aveva fatto lo stesso.

Quello che moglie e figli non sapevano era che il nipotino preferito di Loano, il giorno prima, aveva rivelato al nonno di aver ottenuto dal padre il permesso di andare al mare, domenica, assieme alla nonna, col pullman. “Perché non vieni anche tu?” gli aveva domandato la piccola zazzera bionda. Stava per dire di no ma la voce non gli era uscita; non ne aveva avuto il coraggio. Né la testa aveva avuto la forza di esprimere con lieve ma decisa rotazione ciò che la bocca si era guardata dal pronunciare. Gli occhi accesi del bambino aspettavano una sola risposta. “Allora?” Loano pensava alla giornata persa, al lavoro da rimandare di una settimana, e ai lavori delle settimane successive, da rimandare a loro volta. Una seccatura, in una catena incombente quanto lo scorrere del tempo. Il bambino però gli sorrideva, suggerendo la risposta. “Sì.” aveva detto alla fine, come per togliersi un peso. Il nipote gli aveva buttato le braccia al collo, e lui, che già si era pentito, aveva rigettato il pentimento in una lacrima liberatrice.

Ci aveva pensato dopo, al mare. Esisteva per davvero? O era solo una fantasia, un’illusione. Per esistere doveva esistere; l’aveva visto in tivù, sentito nelle previsioni del tempo. “Mari da mossi a poco mossi”, diceva per lo più il meteorologo. Benché lui, il mare, non l’avesse mai visto. Non avesse mai visto niente. Talora, per lavoro, gli era capitato di andare in qualche paese vicino, in una valle circostante, una volta addirittura in città. Ma al mare mai. Non l’aveva mai attratto il mare; mai stuzzicato. Tutta quell’acqua. Neanche a tavola la sopportava, l’acqua. Il vino era l’unico liquido che poteva surrogare il liquido per definizione, la grappa.

Alcuni anni prima aveva avuto un calcolo. “Bere molta acqua.” gli aveva detto il medico. Acqua. A uno che all’ora del tè faceva merenda con pane, salame, vino della sua vigna o grappa ai mirtilli. Quando la beveva gli sembrava di annegare, e in pancia la sentiva frangersi contro gli intestini come le onde contro gli scogli. Gli era venuto il mal d’acqua. Al mare gli sarebbe venuto il mal di mare. Ma ormai aveva promesso.

Domenica mattina, col buio, nonni e nipotino raggiunsero il piazzale della chiesa, punto di ritrovo dei partenti, dove un pullman li imbarcò per l’approdo convenuto. Mentre la piattaforma mobile lasciava quelle vette incantate, che ancora specchiavano il pallore della luna, e scendeva lungo i tornanti come un’enorme, lenta saponetta, a Loano andò la testa in centrifuga. Già la notte aveva dormito male, girandosi e rigirandosi nel letto quanto la risacca sulla battigia. Stava lasciando i suoi monti, il suo gassoso liquido amniotico, e non per un’altra valle o altri monti, ma per un altro pianeta, un’altra galassia. Sarebbe riuscito a sopravvivere?

La montagna cedette ben presto alla collina, e la collina alla pianura. Loano pensò all’anno indietro. La moglie, per la prima volta, gli aveva chiesto la domenica libera per andare al mare con la parrocchia, sempre di maggio, come quell’anno. Lui, alla richiesta, c’era rimasto, poi le aveva dato il permesso, quanto a un’adolescente alla prima uscita.

“Com’è il mare?” le aveva domandato quand’era tornata, la sera, e l’aveva raggiunto a letto.

“Bello.” gli aveva risposto.

“Più delle nostre montagne?!” aveva ribattuto secco.

“No.” gli aveva sorriso, quasi per non scontentarlo.

“E allora perché andarci?” aveva concluso Loano, chiudendo le trasmissioni con la moglie e, tirata su la coperta, col mondo.

Ora, invece, quel diavoletto tentatore di Alderuccio, il nipotino, l’aveva coinvolto in un’avventura ai confini della realtà, dentro una macchina volante che l’avrebbe portato chissà dove, alla mercè di alieni e terre inospitali. Nudo, senza le armi dei suoi attrezzi da lavoro. Grattava con le dita dei piedi contro i calzini, contro le suole, come per uscire da quel cappio elastico, da quella trappola viaggiante. Un’ansia che gli si leggeva in faccia, nelle mani, strette l’una all’altra. Guardò la moglie, sveglia, e il bambino, che dormiva.

Finì per appisolarsi pure lui; ansia a parte, non era abituato a stare senza far niente. Si svegliò alle prime luci dell’alba, in quella che, dritta come uno scivolo a due corsie, doveva essere l’autostrada. Dove tante scatole di metallo, più o meno grandi, più o meno piene, superavano il pullman dandogli appuntamento a dopo o a mai. Salutandolo, in ogni caso, con un colpo di luci o un pennacchio di fumo.

Il becchettio del transatlantico nel mare d’asfalto lo fece riappisolare e ridestare più volte, avvolgendolo in un torpore aereo. Ogni volta che apriva gli occhi incontrava quelli di Varda, spalancati a mo’ di fari su di lui e su tutto ciò che si muoveva dintorno, per non perdere nulla della gita. Non aveva fatto il viaggio di nozze; solo il breve tragitto dalla chiesa al ristorante e ritorno al nido. Alla casa con annessa officina; o viceversa. Il loro regno. La loro prigione.

Si svegliò col sole che gli solleticava la fronte. Il pullman percorreva un viale alberato, le fronde degli alberi gonfie quanto criniere di leoni, a incontrarsi in una volta di foglie tremolanti che ombreggiavano la strada. Si alzò da sedere e aprì il finestrino. L’aria era tiepida, frizzante; sapeva di sale e di luce. Il cielo era di un azzurro terso, profumato.

La moglie lo vide appoggiare il mento sul finestrino e inspirare avidamente, il vento nei capelli.

“Siamo quasi arrivati.” gli disse “Ora si va un po’ in spiaggia, poi al ristorante, e nel pomeriggio a Sant’Apollinare.”

Scesero sul lungomare, a ridosso di uno stabilimento balneare. Loano stringeva la mano di Alderuccio, come per proteggerlo da quanto stava per svelarsi al loro sguardo. In realtà era lui a essere appeso a quella piccola mano, che teneva forte per vincere la paura dell’ignoto. Camminavano piano, stretti da un nodo di mani e di cuori, gli occhi fissi dinanzi. Fecero qualche breve passo, a misura di bambino, passarono lo stabilimento balneare e approdarono sul limitare del lastricato. Di fronte, la spiaggia, con la sua distesa di sabbia e, in fondo, come immensa oasi nel deserto, il mare.

“Nonno, la sabbia.” sussurrò Alderuccio.

Loano rimase in silenzio, trasognato, fissando il tratto che li separava dall’acqua. Quindi fecero entrambi un passo avanti, affondando lo scarpe da montagna nella sottile farina tiepida.

Alderuccio si chinò, ne afferrò una manciata e la depose nella mano destra del nonno. Loano l’assaporò al tatto, passandosela fra le dita. Sembrava polvere di ferro, ma più morbida, più calda. La restituì alla sabbia e s’incamminò col nipote verso la riva, sollevando piccole nuvole di polvere.

Nella marcia di avvicinamento al bagnasciuga notò accampamenti di uomini e donne sdraiati su stuoie e lettini, che prendevano il sole in costumi da bagno che celavano ben poco di quel che avrebbero dovuto -specie le femmine, che mostravano con orgoglio i trofei di cui erano dotate-, con colori della pelle che andavano dal bianco all’aragosta al bronzo. Un condominio orizzontale, multicolore, con una precisa delimitazione dello spazio di ciascuno con borse e asciugamani, usati come pipì di gatto, per marcare il territorio.

Guardava rapito, Loano, girandosi intorno, e con lui il bambino, incamerando ogni immagine che catturava la vista, e ricoverandola nell’angolo della mente dove dimorano i ricordi, perché ne avesse cura, quanto fiori in una serra. E cercando di capire, abituato mentalmente ai fiumi, da dove poteva sgorgare tutta quell’acqua, se da destra o da sinistra, e dove poteva finire. Ma non era acqua che gli scorreva davanti, ma che gli si stendeva di fronte a mo’ di tappeto, steso per invitarlo a entrarvi dentro.

Raggiunta la riva, si fermarono a fissare l’orizzonte, al pari di due esuli; due naufraghi che, aspettando che dal mare qualcuno venisse a riprenderli, si godevano la vista che dall’isola si apriva ai loro occhi. Guardavano il mare in compenetrato silenzio, quasi risucchiati, assorbiti da quelle lingue verdi-azzurre che si sopravanzavano e guizzavano ai loro piedi come se scodinzolassero, quanto un cucciolo che corre incontro al padrone per un festoso benvenuto. Lingue che in lontananza si univano, baciandolo, all’azzurro del cielo.

Guardavano quella distesa d’acqua salsa, che recava in dono conchiglie e piccoli sassi lucenti, ciascuno dei quali pareva raccontare una lunga storia, di mare e d’amore. Doni portati dalle onde, a mo’ di magi, che erano di viatico e di speranza che vi sia, nel mondo, qualcosa di bello, per cui valga la pena di vivere. Qualcosa che non si vede, ma che c’è.

Fissavano il verde-azzurro che si stagliava a perdita d’occhio; lo vedevano ondeggiare, mutare il riflesso del sole, tremolare al soffio del vento, ne respiravano l’odore denso e dolciastro, ne ascoltavano la voce in superficie, e parevano coglierne la vita nelle profondità, e condividerne il mistero e la bellezza.

Erano fermi sul bagnasciuga, stregati da quello spettacolo, ammaliati dal suo incanto, nei vestiti di quand’erano partiti. Giacca pesante, camicia di flanella e maglia della salute. Al punto da attirare l’attenzione della discinta fauna da spiaggia, che si era messa a rimirare i due intrusi, immobili come spaventapasseri.

“Bello, vero?” disse Alderuccio, rompendo il silenzio, senza distogliere lo sguardo.

“Bello.” confermò il nonno.

“Mettiamo i piedi nell’acqua?” chiese il bambino, per uscire dalla tavolozza ed entrare nel quadro.

Loano si guardò le scarpe. Per mettere i piedi nell’acqua bisognava toglierle, ma soprattutto bisognava togliere i calzini. “Dài!” occhieggiava il cucciolo d’uomo.

“Ma sì!” disse Loano. Tanto, tolte le scarpe, restava il bozzolo protettivo dei calzini; li avrebbe tenuti, e poi si sarebbero asciugati al sole.

Ma appena tolse la scarpa destra, notò che il ditone fuoriusciva dal pedule scuro quanto la grossa testa di un lumacone dal guscio. Doveva essere stato tutto quel grattare a vincere la tela di rammendi che la moglie, instancabilmente, tesseva all’altezza della testa del piede. Se non era già rotto quando se l’era messo la mattina, di fretta, col buio fuori e l’ombra del paralume dentro. Forse aveva ragione Varda, ci voleva del fil di ferro per chiudere certi buchi una volta per tutte.

Alderuccio rise nel vedere quella strana specie di mollusco uscire dal nicchio, e pure Loano non riuscì a trattenere il riso. Ma come avrebbe fatto a passeggiare con un calzino così grossolanamente bucato? Doveva buttarlo. Se lo sfilò e lo gettò in un bidoncino dei rifiuti prossimo alla riva. Si guardò i due piedi, uno foderato di nero e l’altro no. Così era perfino peggio. Si tolse anche l’altra calza e la mandò a raggiungere la prima.

Senza i suoi appoggi guantati si sentiva nudo, cieco e sordo, a suo agio come dentro la pentola di un cannibale che aveva appena acceso il fuoco. Tuttavia si mise a camminare a piccoli passi, per abituare alla nuova superficie la pianta del piede, che la mancanza del pedule rendeva più sensibile di una bilancia di precisione. Una superficie sconosciuta, infida a prima vista, ma sincera a una seconda. Camminando sentiva un leggero pizzicore sotto i piedi, un massaggio di tante morbide capocchie di spillo che, come il massaggio esercitato sul palato dal primo bicchiere di vino rispetto ai successivi, lo spingevano ad andare avanti. In prossimità dell’acqua si rivoltò i calzoni, perché non si bagnassero, e così pure rivoltò quelli di Alderuccio. Finché non vi affondò le caviglie, con l’onda che, bagnandogliele e ritirandosi, lo solleticava blandendolo quanto una maliarda, e lo invitava a raggiungerla. Acqua che poi, nel ripiegare, lo lasciava leggermente sprofondato nella rena, quasi a renderlo figlio della sabbia. Figlio del mare. Se lo sentiva addosso, sulla schiena, nella carne; un fardello lieve, senza peso, levitante addirittura, che lo faceva sentire simile a un gabbiano.

I piedi nell’acqua gli davano un senso di estasi, di felicità. La felicità di chi, raggiunta una vetta, vi pianta una bandiera sopra, come per farla propria, e a sua volta farne parte. Per tornare, mescolandovisi, a quella natura da cui un giorno il soffio vitale l’aveva fatto scaturire. Poi si girò e tornò sui suoi passi col bambino, raddrizzando a sé e al piccolo i calzoni. Loano, facendo di necessità virtù, infilò le scarpe nei piedi nudi, e con Alderuccio raggiunse la moglie e gli altri per andare al ristorante, che era nello stabilimento balneare vicino. Moglie a cui si guardò bene dal dirle dei calzini, per evitare una scrollata di testa a lui, e un cruccio a lei. Il frizzantino fresco non fece rimpiangere il rosso della vigna, né i tagliolini di mare, la grigliata di pesce e il fritto misto le pappardelle al cinghiale e la carne salada e fasoi. E nemmeno il limoncello, dopo il dolce, fu da meno della grappa.

Finito il pranzo, la comitiva, per smaltire cibo e libagioni, di nuovo si riversò in spiaggia, chi per una passeggiata sulla battigia chi per un riposino sotto l’ombrellone, in attesa della visita, prevista per metà pomeriggio, alla vicina basilica di Sant’Apollinare.

Loano e Alderuccio si incamminarono lungo il bagnasciuga, nuovamente togliendosi le scarpe, che ormai il ghiaccio era rotto, e rivoltandosi i calzoni sopra le ginocchia, rivivendo le emozioni di prima, ma amplificate dalla pancia piena e, per Loano, dai fugati dubbi sull’avversità del mare. Dalla bellezza, anzi, dal calore e dalla gioia che sapeva infondere. Finché il loro orecchio non fu attirato da un canto ammaliatore.

“Signore e signori, la motonave Aurora sta per partire per un meraviglioso giro di due ore lungo la costa. Venite. I bambini viaggiano gratis.”

La motonave era un vecchio barcone a motore, che danzava sulle onde come un’odalisca sovrappeso. La coppia si guardò sbilenca.

“Nonno, ci andiamo?!” disse il bambino illuminandosi.

Due ore. Il tempo forse c’era, pensò Loano, ma salire su una barca, andare per mare, circondati dall’acqua, con la terra lontana; tutto in un sol giorno. Non era troppo? Loano cominciò scuotendo lentamente il capo in gesto di diniego, prima di bloccarlo pupille al cielo, e sbloccarlo poi in un frenetico movimento dall’alto in basso. E si mise a correre verso la barca insieme al nipote, quasi trascinandolo, sollevandolo, mentre il piccolo urlava dalla gioia. E pure lui, con la faccia spiritata, lanciava grida gutturali, da attacco indiano alla diligenza.

“Non c’è bisogno di correre, signori; siete i primi. Io sono il comandante.” disse uno che del comandante aveva giusto il pizzo e, forse, il cappello “Sembra che non abbiate mai visto il mare.”

“E’ così!” replicò il bambino.

“Non avete mai visto il mare?!” stupì il graduato senza stellette, e allo stereofonico “no” del duo stese il braccio maestro e proruppe in un: ”Accomodatevi! La nave è vostra.”

Fatto il pieno di bipedi, come Noè dovette farlo di quadrupedi e uccelli, il barcone partì. Si allontanò piano dalla costa, poi prese velocità, cavalcando le onde di un mare placido e luccicante, sollevandosi e adagiandosi molle su di esse. La carena tranciava i flutti quanto un apriscatole, arricciandoli in una cresta spumosa. Spuma che si apriva e si chiudeva al passaggio della vecchia madama, accarezzandone i fianchi di matrona.

Avrebbe voluto abbracciarla, Loano, quell’onda bianca, quasi accecante, senza gli occhiali da sole, ma lei, al contatto con la barca, si dissolveva, come una parola non detta, un sogno svanito, per ritornare di nuovo e, di nuovo, sparire, quanto un’eterna promessa. E allora alzava gli occhi e guardava i gabbiani, che volavano intorno, tuffarsi in acqua e centrare la preda, per portarla lontano, e poi tornare. Non era difficile immaginare di essere un pesce che nuota tra i fondali, o un uccello che vola nel cielo. Non era difficile pensare che tutto fosse dono di Dio.

“Nonno!” lo risvegliò di colpo Alderuccio “Non abbiamo avvisato la nonna!”

Loano si picchiò una mano sulla fronte, prima di allargarle entrambe, in segno di resa. Era vero, non l’avevano avvisata. Ma a quel punto era fatta. Si augurò soltanto che potesse distrarla don Clauro, che in chiesa dissertava di santi come nessuno. Loro, ormai, potevano fare solo i navigatori.

In quell’istante, invece, Varda, col gruppo in procinto di avviarsi a Sant’Apollinare, si accorse dell’assenza, più che del marito, alle cui assenze era abituata, del nipote, che il figlio aveva affidato a lei e solamente a lei, e fu colta dal panico. Bloccò don Clauro, e insieme a lui corse in spiaggia e lungo il bagnasciuga, a chiedere se qualcuno aveva notato un bambino biondo in compagnia di un uomo dai capelli grigi. Di piccole teste fulve in spiaggia ce n’erano parecchie, perché a maggio erano già scese le prime avanguardie di tedeschi. Finché qualcuno non ricordò di aver notato un uomo urlante che trascinava un bambino biondo, che pure urlava, verso uno di quei barconi che portano in giro i turisti.

“L’hanno rapito!” gemette Varda.

“Rapito?!... Su una barca piena di gente?” replicò don Clauro.

“Sì, l’hanno rapito!” ripeté.

“Ma no, forse è con Loano, e stanno facendo un giro in barca.”

“Mi descriva l’uomo!” fece Varda al testimone.

“Beh, era vestito.” rispose questi “Aveva i pantaloni rivoltati… i piedi nudi...”

“Non è Loano!” l’interruppe la donna “Non può essere Loano!”

“E perché?” chiese il prete.

“Perché lui non li toglie mai i calzini!”

“Ma Varda, siamo al mare. Qui nessuno porta i calzini.”

“Tu non conosci Loano. Dobbiamo chiamare la polizia.”

Frattanto, in mare aperto, il barcone avanzava sonnolento tra i flutti, mentre il sole scaldava il sorriso dei naviganti e la brezza umida ne accarezzava i visi, e in cielo piccole nuvole bianche si univano in strane figure.

All’improvviso, il brontolio del motore e lo sciabordio delle onde contro la barca furono spezzati da un ululato in avvicinamento, e la volta celeste da lampi di giallo e arancione. In men che non si dica una lancia si avvicinò al barcone e una voce al megafono diede ordine di fermarsi.

“Cerchiamo un bambino biondo di otto anni. Si chiama Alderuccio.” gracchiò, nasale, la voce.

Loano si irrigidì, prima di sentire un formicolio lungo la schiena, mentre i punti interrogativi disegnati sulle facce degli astanti si appuntavano sul bambino al suo fianco, e poi su di lui. Acuminati come frecce.

“E’ mio nipote.” disse con un sorriso ebete a quegli occhi puntati.

“E’ qui.” gridò il comandante finto a quello vero.

“Veniamo su.” gracchiò, di nuovo, il megafono.

In breve, il comandante coi gradi salì a bordo del barcone insieme a Varda, che strinse al petto Alderuccio e fulminò con un’occhiata Loano. Poi, chiarito con la polizia costiera, che tornò a più serie questioni, il viaggio riprese come previsto, con un passeggero in più. Quindi tornarono al punto da cui erano salpati, e di qui al pullman, dove di lì a poco giunse il gruppo da Sant’Apollinare.

“Ci andremo l’anno prossimo.” disse premurosamente Loano alla moglie, che lo guardava scuotendo il capo. “A sant’Apollinare, intendo… Ma pure al mare. Magari anche prima di un anno.”

Varda spalancò occhi e bocca. I miracoli stavano diventando un evento piuttosto frequente. Poi gli schiuse un sorriso di pace.

La sera, tornati a casa, fra le montagne, con Filippo ai piedi del letto, dopo aver festeggiato il ritorno dei padroni dal lungo viaggio, Loano non si lavò i piedi né, coricandosi, mise i calzini. Tenne la sabbia fra le dita, quasi fosse una calza. Si addormentò col mare addosso, pensando all’onda bianca e al suo andirivieni, al suo offrirsi e al suo ritrarsi, a quell’abbraccio mancato. L’abbracciò nel sonno, come un’amante lontana.


Torna in cima alla pagina


Il Manoscritto Scomparso

Non tutti gli elettori sono uguali per i politici; alcuni lo sono di meno. Certuni esistono giusto nelle pagine gialle, altri neanche nella fantasia dei creativi. E ci sono gli investigatori privati. Che, come si sa, non bazzicano solo film o romanzi.

Non c’è un partito che si occupi seriamente della categoria; perciò io, per un sano principio di reciprocità, non mi occupo di loro. Almeno finché non si va a votare, quando, giorno ingrato, qualcuno bisogna pur scegliere. E in tempi di maggioritario la scelta è fra due nomi, che promettono sapendo di non mantenere, soggetti entrambi allo stesso padrone: il mercato. Due facce della stessa moneta, che però incasserà uno solo. Una visione qualunquista, si dirà, ma calzante al quadretto quanto l’oliva al Martini.

Nondimeno ero tornato a casa prima del solito, per affrontare col viatico di una poltrona le pagine consacrate alla materia di un paio fra i quotidiani più noti di colore opposto, e raccapezzarmi in vista delle imminenti elezioni. Fatica vana, dato che i termini “rossi trinariciuti” e “neri fallocrati” chiarivano poco del pensiero dei contendenti. Il linguaggio politico era sceso a livelli da bettola. Ma per i nuovi tribuni di partito il contraddittorio è diventato uno scambio di insulti. Le botte restano l’ultima ratio. Guardando Molly nella cuccia pensai alla fortuna che hanno i cani a non votare. Anche se, onestamente, hanno la sfortuna di non potersi scegliere il padrone.

Il trillo del campanello recise il pensiero. Non feci in tempo ad aprire che la porta mi si catapultò in faccia. La mente corse alle ghigne di chi poteva trovarmi simpatico al punto da sfondarmi le corna. Per lo più mariti colti sul fatto, dove il “fatto” è sempre una femmina diversa dalla moglie, che così però può campare di alimenti per il resto dei suoi giorni. Ma era solo l’effetto della botta. Sparite le stelle, gli occhi impressionarono salterellarmi davanti due pargoli di canguro dalle guance di burro e le manine ripiene. Gli artefici dello spintone alla porta. Maschio e femmina, garanzia di riproduzione della specie.

“Attenti, bambini!” gridò con colpevole ritardo mamma canguro. “Mi scusi, sono l’inquilina del primo piano. Lei è Avanzo, vero?, l’investigatore. Posso entrare?” disse al mio sorriso di gesso sbuffando come un camion in salita. Era ancora giovane, ma la gestazione dei pargoli le aveva segnato la linea e il fiato.

“Non è nulla, sa?” ansimò indicando il bozzo che doveva ornarmi la fronte quanto una ciliegia sciroppata un pasticcino da tè, dopo che l’ammisi alla magione. I frugoli, del resto, erano già dentro e, raggiunta Molly, avevano avviato le presentazioni.

Dopo avermi inciucchito di scuse per l’intrusione e il resto, mi chiese se potevo aiutare una sua cugina a risolvere un problema. Allungai il collo. Per dire “sì”, ma pure per sbirciare di lato, e notare che con Molly i frugoli stavano facendo un uso improprio delle manine, infilando i ditini nei pertugi disponibili e affibbiandole sonore pacche sulla carcassa. Dire che se la stava passando come il generale Custer a Little Big Horn rende l’idea.

“Qual è il problema?” domandai ostentando indifferenza ai guaiti dell’improvvisata baby-sitter. In realtà per accelerare i tempi. Molly adorava i bambini, ma quei Bonnie e Clyde della tortura in formato ridotto dovevano pensare fosse di pezza e, una volta rotta, si potesse riaggiustare. La madre, come tutte le madri, faceva il gioco delle due scimmiette, non vedeva e non sentiva. Però parlava. La cugina si chiamava Wanda Tarozzi, detta Tara per via del peso lordo; una ragazzona che già al liceo sublimava col cibo e la letteratura il piacere dei sensi. Era in una scuola di scrittura creativa per sole donne, la prima del genere a Pistoia, che dirigeva con un’amica e un amico gay. L’unico rappresentante, si fa per dire, del sesso forte. La sede della scuola era presso la biblioteca San Giorgio, dove si tenevano le lezioni. Il problema era che un’allieva della scuola, la più giovane e dotata di penna, se l’intendeva con uno spinellomane, e Tara ne era preoccupata.

Inutile obiettare che oggi neppure un genitore si preoccupa per così poco, stante la fauna che barbifica nelle scuole, ma nella lotta contro il tempo per liberare Molly dai seviziatori in erba tacere poteva essere decisivo. Più che con certe mogli.

“L’aiuterà se la mando da lei?” chiese.

“L’aiuterò.” risposi d’acchito, il sorriso in bocca e il cuore in gola. Un po’ come in quel gioco in cui una coppia felice si mette in pompa magna, per promettere davanti a un estraneo vestito a festa o in abito talare che lo sarà per sempre. La più azzardata delle promesse. E le diedi telefono e indirizzo dell’ufficio.

“La ringrazio. Andiamo, bambini.”

I frugoli, al richiamo, omaggiarono la bambinaia a quattro zampe di un’ultima salva di pacche e salterellarono fuori, con mamma al seguito. Molly, la lingua a pavimento, diede una scrollata epica e mi ringraziò con la coda.

La mattina dopo l’ufficio assisté all’epifania di Tara. Un disegno di Botero in carne e grasso, con la faccia tonda di un mappamondo, leggermente schiacciata ai poli. Mi parlò della scuola, la Elizabeth Smart, così chiamata in onore dell’autrice di culto di “Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto”, storia di una coppia clandestina nell’America bigotta degli anni quaranta, e della San Giorgio, le sue navate voltate e l’auditorium, adibito a grande aula per gli insegnanti della scuola.

“Perché una scuola per sole donne?” chiesi così, per curiosità.

“Perché la donna è più sensibile dell’uomo, più attenta. Sa ascoltare, è un’osservatrice migliore, usa i due emisferi in contemporanea e non uno alla volta soltanto. C’è più sangue nel cervello di un donna, più neuroni, più vita. Pesa la metà ma vale il doppio.”

“E perché si rivolge a un uomo, se siete così brave?” Non ce l’ho con le femministe. Solo con certo machismo femminino.

“Perché a usare gli emisferi separati siete più razionali. Sui singoli problemi siete imbattibili.”

Avevo spuntato un pareggio. Considerato com’eravamo partiti…

“Ha studiato medicina?” chiesi ancora, avendo disquisito di cervelli quanto un politico alle prime armi di cosa pubblica. Poi la cosa pubblica finisce per dare più assuefazione del fumo, e il linguaggio tende a strutturare non più concetti ma aria fritta.

“No, leggo giornali femminili.”

“Una lettura un po’ di parte.”

“Come tutte. Una cosa però è certa, il futuro è delle donne. Specie nella scrittura. Il futuro prossimo, non quello remoto.”

Aveva pronunciato l’ultima frase come un dogma -o un anatema-, gli occhi spalancati da civetta. E se anche il sapere dei politici fosse il frutto della lettura di certe riviste maschili, riversato sul volgo in forma di princìpi? La cosa non era da escludere, visto lo spropositato numero di riviste contrapposto all’assenza di princìpi.

“Da dove le viene una tale certezza?”

“Dagli scritti delle mie ragazze.”

“Dunque si può insegnare a scrivere?”

“A scrivere sì. Il talento invece no, non può insegnarlo nessuno. Il talento si scopre, non si insegna.”

“E lei, esattamente, cosa insegna?”

“A vincere la paura della prima pagina, che è lo stesso della prima volta. A buttarsi sulla pagina bianca, come si fa col maschio o con la femmina che ci piace; a “sverginarla”, come direbbe un uomo, accoppiando al bianco del foglio il nero dell’inchiostro.”

“Una visione quasi pornografica della scrittura.”

“Erotica, prego. E’ diverso.”

“E di talenti ne ha scoperti?”

“Una, Sara. Ha appena finito il corso. Guardi qui.” disse ostendendo dei fogli scritti al computer “Questa è la sua esercitazione. Io ho dato soltanto i nomi dei protagonisti, Paolo e Francesca, e il lavoro che fanno, maestro d’asilo lui e trapezista lei. Le corsiste hanno fatto il resto; hanno scritto l’incipit, descritto i personaggi, costruito i dialoghi. Solo che Sara ne ha fatto un romanzo, “Amore sulla corda”. Ho appena finito di leggerlo; è una storia che parla al cuore.”

Nessun dubbio che i libri, fra gli oggetti che parlano, parlino meglio di altri. Per quello che hanno dentro. O che non hanno.

“Sta di fatto che Sara ha per ragazzo un poco di buono” proseguì Tara “e ho paura che possa bruciarsi. Vorrei che indagasse su di lui.” e ne vergò i dati su uno dei fogli.

“Ci proverò.” dissi. Benché passare dalle mogli gelose del marito a un’insegnante gelosa del ragazzo dell’allieva, non fosse proprio quel salto di qualità che chi vive di corna si augura.

“Mi farò viva fra un paio di giorni.” concluse “Stasera c’è la festa di chiusura del corso.” e si accomiatò dalla sedia e dal sottoscritto.

La mattina dopo, in edicola, mi trovai di fronte il faccione di Tara che sorrideva. Sopra la foto c’era scritto che era morta.

Fu come un gancio al mento, il colpo del kappaò. Una scossa, e dopo il buio. Poi, lentamente, tornò la luce, e con essa il movimento. Comprai il giornale e aprii alla cronaca di Pistoia. “Tragedia in un attico del centro. Insegnante di scrittura si getta nel vuoto.” Era una notizia dell’ultim’ora, un trafiletto di poche righe. “Per motivi sconosciuti la direttrice della scuola puntini puntini ha raggiunto la ringhiera del terrazzo e, inutilmente trattenuta da puntini puntini, sua socia nella scuola, si è buttata di sotto.”

La Tara che si uccide? Col riscatto delle donne in arrivo?

Tornai a casa per riprendere possesso della realtà. Per avvolgermi in quella quotidianità che, per quanto vuota, è il pieno della nostra vita. Non sapevo che fare, né come. Una cosa sola sapevo, che avevo preso un impegno, e che l’avrei mantenuto. Sia pure alla memoria.

Andai a trovare la cisterna del primo piano, che mi rovesciò addosso per via oculare ondate d’acqua salina, intervallate da raffiche di “Non può averlo fatto”. Il refrein di una canzone senza testo. I figli stavano elaborando il lutto a modo loro, intenti quali erano a sventrare un orsacchiotto. L’osso di pezza per farli star buoni.

“Faccia qualcosa, la prego!” gridò la fiera del pianto.

“Bambini, per piacere, la mamma…”

“No, non con loro! Per Wanda!”

“Già… L’aveva sentita depressa ultimamente?”

“Depressa lo è sempre stata, ma con un carattere che tritava tutto.”

“Mi parli di lei.”

“Dopo il classico ha fatto l’università, lettere, e dopo la laurea ha scritto un libro, “Senza orpelli”, la storia di una tizia sovrappeso che, per mangiare senza rimorsi, toglie di mezzo prima gli specchi e poi la sua ombra. Finirà per perdere la propria identità, per ritrovarla, alla fine, fra gli specchi deformanti di un luna park. Poi ha aperto la scuola e s’è messa a insegnare.”

“E la vita privata?”

“Era la scuola la sua vita, e la biblioteca la sua casa. Almeno che io sapessi. Queste sono le sue chiavi di casa. Le prenda, a lei non servono più.”

Una volta fuori, per chiarirmi le idee raggiunsi un prof di filosofia che avevo conosciuto in facoltà prima di laurearmi, che s’era dato alla scrittura. L’ultima sua fatica, “Cosa c’è da ridere?”, era un racconto autobiografico in polemica con chi, guardandolo in faccia e non potendo fare a meno di notarne la fisiognomica disposizione al riso, gli rivolgeva la fatidica domanda. Al che lui rispondeva che non stava ridendo, e che anzi non c’era niente da ridere. Era solo l’espressione del viso, che non coincideva mai col suo barometro interiore, regolato invariabilmente al basso. Gli chiesi se gli scrittori sono facili alla depressione.

“Sì.” rispose “Quando non vengono pubblicati. E siccome essere pubblicati è come vincere alla lotteria senza comprare il biglietto, lo sono sempre.”

“Al punto da togliersi la vita?”

“La vita, mio caro, marca una presenza e un’assenza, rispettivamente del tempo e della morte. La morte, al contrario, marca due assenze, del tempo e della vita. Credo che, tutto sommato, uno sia meglio di niente. Anche per uno scrittore.”

Una risposta inusitatamente chiara per un filosofo.

Passai dallo psichiatra che aveva avuto in cura mia madre dopo che mio padre prese il volo. Uno specialista nel trattare il male del secolo senza affogare il depresso nel Prozac. Bastavano la sua faccia da Braccobaldo e la voce da Bubu per assicurare la guarigione. Un Patch Adams inconsapevole. Se uno così curava la testa della gente, ragionava il paziente di turno, tutti potevano benissimo fare tutto. Era questo meccanismo di “specchio” che innescava il riscatto del malato. Senza medicinali aggiunti.

Lo psichiatra disse che l’endomorfo, ossia il tipo tondo, non si deprime. Quando cala il suo interesse principale e fa capolino la malattia, il suo “esistere” è garantito dal cibo. Il cibo diventa la prova del proprio “esserci”. E dunque, a suo dire, niente depressione per Tara. Anche se avrei visto meglio quel cartone animato a curare i suoi simili.

La sera diedi una letta all’esercitazione di Sara, che mi ero portata a casa.

“Incipit

“Francesca aveva il passo di un facchino dei mercati generali e i polpacci da ciclista. La figura però era slanciata, nervosa, e i muscoli oculari di Paolo ne furono attratti con violenza. Uno strattone di nervo su nervo, come un richiamo di cosa che conosce in altri il suo simile.”

“Fisicità dei personaggi

Francesca aveva forti capelli chiari e il viso affilato di chi fende la vita come la prua di un motoscafo il mare aperto, le braccia nodose del marinaio e il tronco asciutto dell’albero maestro, su due gambe che parlavano un’impervia lingua straniera. Una lingua dall’incedere duro e cadenzato, eppure svelto e flessuoso, senz’altra concessione apparente alla morbidezza che la rotonda sommità da cui partiva quell’incedere. Una rotondità che faceva il paio con quella dei seni, non tanto grandi da presagirne fuoco e fiamme, ma non così piccoli da non autorizzarne la speranza.

Nella sua forza era bellissima, e oltremodo aggraziata. La regina delle amazzoni senza armi e corona.

Paolo aveva imbronciati capelli neri e la faccia cava, con un torso alto e sottile che, oltre a dargli un pericoloso dondolio, ne faceva un avanzo di qualcosa. Lo scarto del frutto che avrebbe potuto essere e non era stato. Completavano l’incompiuta due gambe indigenti quanto il resto. Una vite attorta con due lunghi tralci pendenti.

“Tagliare i rami secchi.” diceva sempre il padre, lui presente, potando il salice del giardino “Il fusto crescerà più forte.” Se avesse dovuto tagliare i rami secchi al figlio, non sarebbe rimasto in piedi niente.

Nondimeno era cresciuto, e tanto, portando quella secchezza ai limiti delle possibilità umane. Un miracolo d’ingegneria rampicante.”

Archiviai i fogli sul comodino e portai fuori Molly per il giro evacuativo. La primavera era esplosa, coi suoi profumi; il mio naso anche, con la sua allergia al polline; gli occhi pure, strapazzati dalle facce dei politici affastellati nei manifesti. Facce peggiori perfino delle loro idee. Ghignanti, per di più, come iene in attesa del pasto: i nostri voti. In tale miscellanea di natura e rifiuti organici, fare i bisogni dovette sembrarle una libidine.

A un tratto Molly abbaiò a un tizio. Questi, anziché il solito salto all’indietro, fece un passo avanti.

“Complimenti” mi disse sorridendo “il suo è un cane appagato.”

Lo guardai interrogativo. “Appagato”, come un impiegato dopo una promozione.

“Mi occupo di linguaggio dei cani” aggiunse “e il latrato del suo, anzi, a ben guardare, della sua, così pieno e armonico, rivela una creatura serena. Un felice rapporto di coppia.”

Era un tipo strambo, che, imparai, viveva con un danese. Nel senso di quattrozampe. E dunque molto meno strambo delle apparenze.

“I cani sono più intelligenti di quanto si pensa.” continuò “A un primo orecchio sembra che abbaino, ma in realtà parlano. Siamo noi a non capire la loro lingua, e non loro la nostra. Buonanotte. A entrambi.” e sul doppio saluto sparì.

Il giorno dopo passai alla biblioteca San Giorgio. Nella sala dedicata alla Elizabeth Smart sedevano da una parte una ragazzetta dalla chioma arruffata e le efelidi sulle gote, e dall’altra due tizi assorti. Un ciospo in forma di donna coi capelli a caschetto, e un uomo dal viso d’angelo e gli occhi immoti, appesi al nulla; i soci di Tara. Mi feci raccontare com’erano andate le cose.

“Eravamo all’aperto, in quell’enorme terrazzo” attaccò il ciospo. Patrizia, per la scuola Patti “Tara mi si è avvicinata. Aveva lo sguardo fisso; sembrava “fatta”. Ha buttato la sigaretta e ha detto che le sarebbe piaciuto volare. Io le ho preso le mani, erano fredde; le ho chiesto se stava bene. Ma lei ha stretto le mie e mi ha trascinato verso il parapetto. “Che vuoi fare, sei impazzita?!” ho gridato. Cercavo di trattenerla, ma lei era più forte di me. Quando siamo arrivate al parapetto, ha lasciato le mie mani è si gettata di sotto.”

Fabrizio, l’angelo, ripreso possesso di se stesso, confermò il racconto. Era una notte senza luna, sicché sulle prime nessuno si era reso conto di nulla. Alle urla di Patti sì, ma era troppo tardi.

“Ora però c’è un altro problema.” disse Patti “Non si trova più il manoscritto di Sara.” e indicò la ragazzetta. Il famoso talento della scuola.

“Neppure a casa di Tara?” chiesi.

“No.” rispose “Ho guardato dappertutto... Ho le chiavi di casa sua; eravamo amiche.” aggiunse, per rispondere a una domanda scortami sotto ciglia “L’aveva letto solo lei, e ne era entusiasta. Darebbe lustro sia all’autrice che alla scuola. Ma se non si trova…”

“E io che non ne ho fatto una copia.” singhiozzò la ragazzetta.

“Qualcun altro avrebbe potuto?…” azzardai facendo roteare le dita della destra. L’inequivoco segno dello sgraffigno.

Il gatto e la volpe allargarono le braccia, mentre pinocchio sbottava in lacrime.

Mi feci dare l’elenco delle allieve e dei docenti; un drammaturgo, una poetessa e un giallista. Patti si occupava di sceneggiatura, Fabrizio l’etereo di scrittura per l’arte e gli spot, e la povera Tara di narrativa.

“Come vedo la scuola?” rispose il drammaturgo, da cui andai per primo, a cui avevo rivolto la domanda “Poco chiara. Come il linguaggio di noi drammaturghi, del resto, che dev’essere sempre rigorosamente oscuro.” puntualizzò.

Assentii. Con la vaga impressione di essere preso per il culo.

“Non troppo, però. Parlare una lingua che nessuno capisce è uguale a non parlare.”

Riassentii. Con l’impressione di prima, rafforzata.

“Ma nemmeno chiaro. Insomma, il minimo. E’ risaputo che chi legge una commedia, o chi vi assiste, se non ne capisce un beneamato nulla si sentirà come “punito”, e dunque in colpa. Di conseguenza non potrà che parlarne bene. Preferisce sprofondare nella propria ignoranza che capire, e prendere per sapienza ciò che non capisce. In questo modo le parole non veicolano più un “messaggio”, ma un “massaggio”. Una carezza. C’è gente che ama essere verbalmente accarezzata, per coccolare il bambino che sonnecchia in ognuno di noi. Se vuole assistere a una mia commedia…”

“Grazie, ma le carezze preferisco darle, anziché riceverle. E non per via orale.”

Mi guardò schifato, prima di espellermi come uno sputo. Fu quindi la volta della poetessa, che mi si offrì con un sorriso caramellato.

“Nelle mie lezioni ho cercato di dimostrare” sciroppò melliflua “che la poesia non è quella specie di abito da sera che si crede, ma un capo da indossare ogni giorno. Una t-shirt. Non ci si deve sentire imbarazzati davanti a lei. Siamo noi a far diventare poetiche lo cose, tutte le cose, non solo la luna e le stelle, se le guardiamo con occhi nuovi. Come se le vedessimo per la prima volta. Solo così potremo avere il colpo di bacchetta magica che trasforma il rospo in principe, il banale in poetico. E’ questo il miracolo della poesia.”

Nessuno comunque aveva visto il manoscritto di Sara. Cosa comprensibile, essendo un romanzo e non un dramma o una silloge. Nemmeno il giallista, il quale, sostenendo, forse per deformazione professionale, che per uno scrittore un libro finito è anche un libro defunto (nel senso etimologico del termine, che ha svolto la sua funzione, è diventato esperienza), ebbe a dire che pure lei ora aveva il suo bel morto in casa. Si batteva costui per l’abolizione dell’”happy end” dal romanzo, che gli autori inserivano, a suo dire, non per ottimismo ma per cinismo. Salvo che nel giallo, che doveva per forza finire con l’arresto del colpevole. Ovvero come ben di rado finisce nella realtà.

Poi fu il turno di Teresa, l’allieva più infoiata del corso, che, più che l’allieva di una scuola, si considerava l’affiliata di una setta. Mi disse, per dar l’idea del tipo ma anche della congrega, che una sera erano andati in un pub non lontano dalla biblioteca per una prova pratica; una sorta di commemorazione dell’ordinario. Un omaggio agli anonimi di cui nessuno parla. La prova consisteva nel descrivere i clienti del locale, dentro e fuori di loro. A un tratto lei si alzò e andò a spegnere lo stereo, perché la musica era troppo alta. La descrizione delle compagne di corso consisté nell’esporre come il proprietario del locale le si era avvicinato e le aveva allungato un fiore a cinque dita. Un’offerta che lei non era riuscita a rifiutare. Le stelle che vide però non riuscì a descriverle nessuna corsista, nemmeno per approssimazione.

Teresa ignorava che Sara stesse scrivendo qualcosa. Forse perché il suo ego esauriva i possibili ego in circolazione.

La sera recuperai i fogli dal comodino e mi sparai un altro pezzo di esercitazione.

“Animo dei personaggi

Francesca passeggiava a testa alta e cuore basso. Ripensava alla sua vita in cielo, a quei voli da sbiancare uno stormo di corvi imperiali.

Amava catturare gli occhi della gente, le bocche dei bambini che, spalancati a oblò, la guardavano volteggiare in aria, fissandola come lo specchio fissa il vanesio. E amava concedersi ai loro applausi sperticati, alle grida entusiaste di chi vedeva in lei la farfalla, come ai commenti a fior di labbra di chi preferiva vedere la falena.

Era la sua vita; non ne conosceva altre. Una vita che però non lasciava spazio, e perciò vita, alla sua legittima proprietaria: lei.

Era stanca di volare; voleva tornare coi piedi per terra, abbandonare il mondo degli uccelli e tornare a quello degli uomini. Trovare un compagno che assecondasse la sua nuova terrenità e mettere su casa, famiglia. Figli. Farne uno col domatore di leoni era sensato quanto farlo con un collaudatore di paracadute fallati; anche se quando stava col mangiatore di coltelli prima e l’uomo proiettile poi il domatore le sembrava un lavoro di tutta tranquillità. Come l’avrebbe presa il giorno in cui lui le avesse detto: ”Porto il pupo a far vedere dove lavora papà”? E se anziché metterlo a giocare nel box l’avesse messo nel recinto? No, niente figli con chi fa certi mestieri.

Ma perché non era un’impiegata, una commessa, o una casalinga annoiata dalla vita infelice anziché una stella del circo senza una vita?

Paolo portava in giro un passo hertziano guardandosi le spalle come un ladro, quasi a temere di essere seguito da un alunno invadente, o di esserselo portato appresso e averlo perso, o peggio, essersi dimenticato di averlo perso.

L’affetto per quei piccoli svogliati non lo lasciava un momento, salvo dirottare a volte verso le loro mamme. Quand’era piccolo le mamme gli sembravano tutte brutte e vecchie, tranne la sua. Ora invece gli parevano tutte giovani e belle. Specie alcune. Avrebbe voluto essere il padre di quei terremoti, il compagno di giochi, l’amico. Ma soprattutto il marito di certe madri. O, meglio ancora, l’amante.

Il fisico però non lo aiutava, e il suo animo si faceva carico di compensarlo di quelle gratificazioni che le femmine usano riservare ai maschi dotati di un visibile campionario di muscolatura. Maschi per i quali pure il cervello è un muscolo ma, non apprezzandosi esteriormente, non necessita di esercizio.

Aveva voglia di volare via, di staccare i lunghi piedi da terra e librarli nell’aria come le elitre di un coleottero; farli atterrare su un pianeta dove si potesse vedere fuori e dentro i corpi, l’involucro e il suo contenuto di fibre, gangli e buoni sentimenti. Per apprezzare il bello ma anche il buono. Un pianeta abitato da corpi di vetro. Dei vetri a rendere.”

Riarchiviai i fogli sul comodino con una fissa in testa. Dov’era finito il manoscritto di Sara? Benché apparentemente non c’entrasse nulla con la morte di Tara. O c’entrava?

Uscii con Molly per l’esplorazione serale del territorio. Lungo il sentiero incontrammo il tizio della sera prima con la sua metà, il danese. Molly, di fronte al maestoso esemplare di alano -il re dichiarato dei cani, almeno quanto il leone lo è degli animali tutti-, si mise ad abbaiare sonoramente.

“Sembra che non ne voglia.” disse il glottologo canino calcando il “sembra” “In realtà ne vuole a pacchi dal mio Leo.” Guarda caso, si chiamava come il re della foresta “Il latrato della sua è un vero e proprio richiamo d’amore.”

“E’ vero?” chiesi a Molly.

Molly, che, al pari di tutti i cani, non sa mentire, emise un guaito d’assenso.

“Ha visto?” riprese il tizio “Le cose non sono mai come sembrano.” sentenziò, e salutò la compagnia.

La frase mi richiamò l’”effetto alone” della psicologia sperimentale, causa di errate valutazioni nel giudicare la personalità altrui. O la zucca fra le zampe di Giacomo, il figlio di un mio amico, che si ficca a testa in giù per veder scaturire un mondo nuovo, diverso dal solito. Un po’ come per la poesia, a pensarci.

Il mattino dopo portai i miei occhiali a casa di Tara. Pareva ci fosse passato un tifone. Il tifone si chiamava Pietro. Disse di essere il ragazzo di Sara, di essere lì per cercare il manoscritto e restituirlo alla sua artefice.

“Maledetta cicciona!” sbottò a un tratto “Dove cazzo l’ha messo?”

“Guarda che la “cicciona” è morta” replicai “e stravedeva per la tua Sara. Perciò cavati dalle palle.”

Mi ritrovai ad amoreggiare col piancito, senza sapere perché e percome. Fu il dolore a uno zigomo a suggerirmi sia l’uno che l’altro. Frattanto Pietro, a evitare rappresaglie orizzontali, se l’era battuta.

Scesi anch’io. In un tale soqquadro era impossibile che, se ci fosse stato qualcosa da trovare, chi c’era stato prima di me non l’avesse trovato. Senonché, passando dall’androne delle scale, l’occhio mi cadde sulla finestrella della buca della posta di Tara, dove lumeggiava un cartoncino bianco. Lo recuperai con un paio di pinze con cui toglievo le zecche a Molly. Era l’avviso di ricevimento di una raccomandata. Il destinatario era il Concorso Italo Calvino - Opere prime, il mittente Sara Varzi c/o Wanda Tarozzi. Il mistero del manoscritto era risolto, quello della morte di Tara ancora no.

Andai da Sara, per tranquillizzarla senza sbottonarmi. Le chiesi com’era riuscita a scrivere un romanzo dal nulla.

“Io sono figlia di un italiano e di una rumena.” rispose “Lui era maestro d’asilo, e lei acrobata.”

“La realtà supera la fantasia.” commentai.

“Ho scritto la storia del loro amore. Un amore osteggiato dai genitori di mio padre. Lei venne in Italia col circo, lui portò la classe a uno spettacolo, e quando la vide danzare in aria se ne innamorò. Dopo mille sotterfugi scapparono in moto, ma caddero e si ruppero una gamba ciascuno. In ospedale decisero che era meglio morire insieme, piuttosto che vivere separati. Si buttarono dalla finestra, ma il peso del gesso li fece cadere sulle gambe, sicché si ruppero anche l’altra. A quel punto la famiglia di mio padre cedette.”

“Quindi è un vizio di famiglia cercarvi degli amori complicati.”

“Che c’entra Pietro, adesso?”

“C’era anche lui alla festa?”

“E’ il mio ragazzo, no?”

“Già... Ha fumato molto, Tara, quella sera?”

“Parecchio. Solo che, avendo dimenticato le sigarette, è andata sempre a scrocco.”

“Le ha chieste a qualcuno in particolare?”

“Un po’ a tutti. Per non pesare su uno soltanto, ha detto.”

“E… era fumo pulito quello di Pietro?”

“Pietro non fuma più erba da un pezzo.” gracchiò “Guardi le altre allieve, piuttosto. Figlie di papà col pallino delle scrittrici, tutte dieta, pasticche e spinelli.”

“Okei. A proposito” dissi nel togliere il disturbo “per il manoscritto, stai tranquilla. Salterà fuori.”

Raggiunsi l’appartamento dove c’era stata la festa come un fiume in piena -millantai di essere della scientifica, parola al cui suono ti si spalanca ogni porta-, dragai la terrazza a piccoli passi, raccolsi le cicche che c’erano e, facendo gli scongiuri, passai in polizia da un certo Imbusto, un piacione che mi doveva un servizio (io l’avevo fatto a lui scoprendo quelli che la moglie faceva a un altro mentre lui era di turno), per farle analizzare. Gli scongiuri erano perché, fra i tanti mozziconi, ci fosse anche quello che cercavo.

Tornato all’ovile, finii di leggermi l’esercitazione:

“Dialoghi

Quando le gambe impertichite di lui incrociarono quelle da ciclista di lei, la leggera incurvatura da valchiria da camera, d’acchito pensarono a come intrecciare un dialogo a quattro.

Il problema era l’abbordo, come attaccar discorso. Dichiararsi colpito dai suoi occhi era quello più gentile, anche se il meno facile da dare a bere a una che portava una minigonna girocollo. E dalle sue gambe? Poco fine, quale approccio. Dal suo passo, fine come per le gambe. Chiederle l’ora era superato, scambiarla per una vecchia amica un azzardo, trovarla bellissima tout court un francesismo.

A un tratto gli si accese una lampada in soffitta. I bambini della scuola. Per la prima volta sarebbe stato lui a sfruttare loro, e non loro lui. Tornò sui suoi passi e la raggiunse.

“Mi scusi, non è una delle mamme dei miei piccoli?” chiese sbilenco.

Per lui i suoi scolari erano tutti “i suoi piccoli”, quasi quanto per mamma passera gli occupanti stabili del nido.

“Direi di no.” rispose allargando a cuore la bocca “Me ne sarei accorta, non crede?”

“Ma che ha capito?!… Non sono proprio “i miei” piccoli. Insegno in un asilo; sono i miei scolari.”

“Aaahhh!” sfiatò sollevata, accompagnando il sollevamento interno a quello, manuale, della frangia tirata a tendina sugli occhi.

Lui li vide, erano belli; occhi che centravano il bersaglio, lo facevano sanguinare. Anche se a quel punto era inutile dirglielo, dato che l’approccio ormai era cosa fatta.

“L’avevo scambiata per la madre di uno di loro.” mentì “Ma lei è molto più giovane; più bella.”

“Oh beh...” belò lei “Anch’io, in un certo senso, mi dedico ai bambini. Lavoro in un circo. Non sa quanti ne vengono.”

“Ma davvero?! E cosa fa?”

“La trapezista.”

“La trapezista?!” esclamò alzando lo sguardo, quasi a immaginarla su un filo teso fra i tetti delle case che guardava.

“La trapezista.” ripeté lei alzando a sua volta lo sguardo, come a dire “Sì, sono quella che sta là sopra.”

Quella sera il giro con Molly non finiva più. Era il suo padrone, onusto di foschi pensieri, e non lei, a dover partorire non già un semplice bisogno, ma quel tanto per chiudere il cerchio, far tornare i conti. Senza riuscirci, e senza neppure che Molly incontrasse il fusto di cui avrebbe desiderato essere la trepida ancella, e che il sottoscritto, pur amando di un amore fraterno come cane, avversava tenacemente come rivale.

La notte sognai Tara che si buttava dal terrazzo, e io, che la tenevo per impedirle di buttarsi, vinto dal suo peso saltavo con lei. Durante la caduta vedevo di sotto l’alano col suo padrone, che, guardando in alto, mi ripetevano lo stesso ritornello: “Le cose non sono mai come sembrano.” All’impatto col suolo mi svegliai di soprassalto, avvolto in un bozzolo di sudore. Spalancai gli occhi e deglutii freddo, perché stavo “vedendo” esattamente cos’era successo quella sera. Non ritrovai più il sonno, ma rimasi inchiodati al letto, ripassando le immagini fino allo stordimento e aspettando l’indomani.

La mattina dopo mi recai dal bell’Imbusto. Una delle cicche presentava una farcitura supplementare rispetto al solito tabacco; stupefacenti, un mix di ero e coca. Una sigaretta drogata te la può dare chiunque, ma c’era solo una persona che aveva interesse a darla.

Andai alla biblioteca San Giorgio, a trovare la strana coppia della Elizabeth Smart.

“Tu ti droghi. Non è così, Fabrizio?” esordii.

Faccia d’angelo allargò le ali, prima di scoppiare in stranguglioni.

“E tu, Patti, lo sapevi.”

Il ciospo sbarrò gli occhi, quasi che il soffitto dovesse franarle in testa senza chiedere il permesso.

“Patti, tu avevi una storia con Tara, vero?”

“Cooosa?”

“Una relazione. Tara ha detto che la scuola serviva a vincere la paura della pagina bianca, “come si fa col maschio o con la femmina che ci piace”, testuale. Ma perché parlare di “femmine che ci piacciono”, se il corso è per sole donne? Perché lei stava con una donna, è chiaro. Con te!”

“E con questo?”

“Con questo ti conosceva bene. Doveva aver intuito che volevi impadronirti del manoscritto di Sara e sfruttarlo a tuo vantaggio. Così l’ha fatto sparire. E visto che lei era di ostacolo ai tuoi piani, hai deciso di “suicidarla”.”

“Ma che sta dicendo!?”

“Che quella sera hai fregato a Fabrizio una sigaretta drogata e l’hai offerta a Tara, privandola così di ogni volontà, e l’hai accompagnata a corpo morto sul precipizio, ordinandole di saltare. Hai fatto credere di volerla salvare, mentre l’hai uccisa. La sua morte era il tuo alibi.”

“Non hai prove di quello che dici!”

“Sì, invece; il tuo dna sull’avanzo di sigaretta, che ho dato alla scientifica.” mentii. Difficilmente il mozzicone avrebbe potuto rivelare un semplice passaggio di mano.

“Bastardo! Tara era un’idealista, e con gli ideali non si campa. Quel romanzo avrebbe potuto lanciarci nella crema delle scuole di scrittura. Pistoia come Torino, la Elizabeth Smart come la Holden, io come Baricco!”

Era andata fuori di testa. Tanto da non accorgersi dell’ingresso di due potenziali allieve in divisa da poliziotto, seguite da Imbusto, a cui avevo raccontato ogni cosa.

La povera Tara avrebbe potuto dormire in pace. Anche perché Sara vinse il premio Calvino per inediti, andando a rimpinguare l’inesausta schiera di scrittori sconosciuti, e Pietro mise, come usa dire, la testa a posto, passando dagli spinelli alla finanza. Una droga di gran lunga peggiore.

A proposito, le elezioni finì per vincerle chi le aveva sparate più grosse. Aveva ragione il drammaturgo, al bambino che è in noi piace essere coccolato, piace credere che il futuro sarà migliore. Se non lo è, pazienza; sarà stato bello, almeno, averci creduto.


Torna in cima alla pagina


L'Amore non è di questo Mondo

Facendo retromarcia con l’auto, il signor Gilmo tamponò la signora Vinzia, che stramazzò al suolo, prontamente soccorsa da Oscar, il suo stazzonato compagno a quattro zampe.

All’uomo, a vedere la donna per terra, col bastardone che le impartiva l’estrema unzione con la lingua, per un attimo mancò il fiato, tanto che, quando sopraggiunse l’ambulanza, l’ossigeno fu insufflato prima a lui che a lei.

“Non è colpa mia.” protestò il signor Gilmo appena gli tolsero la mascherina “Ho guardato quando ho fatto marcia indietro. Non c’era nessuno.” disse quasi singhiozzando, gli occhi su quel grosso corpo di vecchia buttato sull’asfalto, più simile a un sacco di patate che a una figura di donna.

E difatti la signora Vinzia, che viveva in strada di ciò che raccattava nella spazzatura e metteva dentro un carrello da supermercato, il suo monolocale su rotelle, mentre il signor Gilmo stava uscendo dal parcheggio con la macchina, aveva visto una monetina giù dal marciapiede e si era chinata per raccoglierla. L’auto l’aveva toccata appena appena nel didietro, e lei era caduta in avanti a peso morto, per poi girare su se stessa e ritrovarsi a guardare il cielo a braccia aperte, come crocifissa.

“Dio mio.” sospirò la crista “Sono morta.”

“Stia tranquilla, signora, ora la portiamo in ospedale.” dissero quelli dell’ambulanza “Se ci fosse qualcosa di rotto, urlerebbe di dolore.”

In effetti i due cappotti sformati, che la donna portava uno sull’altro per proteggersi dal freddo, sopra ad altrettanti maglioni spessi un pollice, parevano aver attutito sia l’urto dell’auto che la caduta.

“Povera me.” sospirò di nuovo “Chi penserà al mio Oscar?”

Oscar, a sentire la padrona fare il suo nome, disegnò un’espressione sconsolata, gli occhi bassi dei bambini rimproverati ingiustamente. Un uggiolio garbato, quasi a non voler disturbare, fece da chiusa alla domanda.

“Ci penserò io, signora.” rispose il signor Gilmo, che, anche se non aveva alcuna colpa dell’incidente, se ne sentiva tuttavia responsabile, per la sofferenza che, pur senza volere, aveva causato a una persona già così duramente provata dalla vita. Una donna che dimorava in strada, senza più identità né rispetto di se stessa, con solo un cane per amico. Che ingiustizie doveva aver subito, o quali dispiaceri doveva aver passato per ridursi a vivere in quelle condizioni? Senza contare Oscar, la cui espressione afflitta e la complessione scarnita richiamavano trascorsi assai poco felici e un presente non troppo difforme.

Il signor Gilmo non si era mai sposato, forse perché non aveva trovato la persona giusta per farlo, forse per non rinunciare alle sue abitudini di scapolo, ai suoi riti, o per non doverli cambiare, non diversamente da tanti quattrozampe, per i quali i riti sono sacri. Nondimeno accolse di buon grado Oscar nel suo attico, apprestandogli un angolo del corridoio con uno panno dove dormire e due ciotole, una per l’acqua e l’altra per il cibo, e dividendo con lui quello che preparava per sé. In pratica aumentando le quantità di ciò che cucinava, che Oscar, pur essendo un cane, era e restava anzitutto un ospite, magari temporaneo, ma pur sempre tale, e non si davano da mangiare dei croccantini a un ospite. E i bocconi del padrone di casa, accompagnati a dosi crescenti di coccole, al nuovo arrivato parevano da sogno, dopo i chiari di luna nera vissuti in strada con la vecchia padrona, tanto che si affezionò ben presto anche al nuovo.

Il signor Gilmo, dopo l’incidente, andò a trovare la signora Vinzia in ospedale, e qui si rese conto che questa non era né così grossa né così vecchia. Ripulita dai residui della strada, con pigiama e vestaglia lavate di fresco, per quanto di fortuna e perciò non della sua misura, sembrava quasi bella, invece, di una bellezza offuscata, svilita. Forse erano addirittura coetanei. Due coetanei a cui la vita aveva tolto a ciascuno qualcosa; a lei la voglia di lottare, e a lui la gioia di vivere. Si trascinavano entrambi, come due molluschi, solo battenti bandiere diverse, mari lontani, seppur vicini.

“Mi dispiace.” le disse il signor Gilmo.

La donna scosse la testa.

“Lei non c’entra. Sono io che non so più badare a me stessa. E’ stata colpa mia.”

“Come si sente?”

Lei si guardò la punta dei piedi, le braccia, i palmi delle mani.

“Hanno cominciato a farmi gli esami. Dicono che mi rimetteranno a nuovo… E Oscar come sta?”

“Oh, Oscar sta benone.”

“Allora sto bene anch’io.” disse, e gli sorrise. Un sorriso contagioso, che fiorì anche sulle labbra di lui.

Il signor Gilmo andò ogni giorno a far visita alla signora Vinzia, e ogni giorno la scopriva più intelligente, più elegante, nonostante gli abiti improvvisati, di un’eleganza interiore, nascosta ma non meno luminosa; di una nobiltà d’animo schiva ma limpida, lontana anni luce da quella delle persone che conosceva. La trovava ogni giorno più meritevole di riscatto, di una vita più degna. E la sera, rientrato a casa, spartiva con Oscar la cena e i progressi della vecchia padrona, le confidenze, i piccoli segreti, e gli raccontava del suo desiderio, quasi il bisogno, di starle accanto, di prendersene cura. Di non lasciarla più.

E anche la signora Vinzia trovava quell’uomo gentile, premuroso nel suo interessarsi a lei, ben educato e pure simpatico, man mano che le si apriva, la faceva parte di sé, gradevole di carattere e anche d’aspetto e, poco alla volta, si era ritrovata ad aspettarlo come da adolescente aspettava il suo primo ragazzo, per uscirci insieme mano nella mano.

“Quando esce di qua può venire a casa mia.” le disse un giorno il signor Gilmo.

“Oh no, non sono pronta.” rispose lei.

“Ma cos’ha capito?” replicò lui “A casa mia ho una stanza in più. Avrà tutta la riservatezza che vuole.” La donna abbassò gli occhi. “Ci pensi; domani me lo dirà.” Lei alzò piano il viso e annuì.

Il giorno dopo il signor Gilmo, giunto nella camera della signora Vinzia, non la trovò. Forse era andata in bagno. Ma il letto era rifatto, pronto per una nuova occupante. Chiese a un’infermiera se l’avevano cambiata di piano o di stanza.

“No.” gli rispose “E’ morta.” L’uomo sentì cedere le gambe, appoggiò una mano al muro e trasse un respiro profondo, per impedirsi di piangere, o di dar di stomaco. Ne uscì un rantolo, che lo apparentò a un moribondo. “Era molto grave.” aggiunse “Non se n’era accorto?”

“A me sembrava… che stesse bene.” rispose più a se stesso che all’infermiera, lo sguardo vuoto contro la parete bianca.

“Forse” azzardò questa “lei “voleva” che stesse bene.”

Il signor Gilmo se ne andò come un automa. Tornato a casa, aprì la finestra e volò da chi l’aveva lasciato, chiedendo perdono al vento di ciò di cui non aveva colpa, mentre l’ospite a quattro zampe ululava al cielo tutto il suo dolore.

Oscar finì al canile, a raccontare ai compagni di pena la storia d’amore dei suoi padroni. Una storia che continua in un mondo diverso, dove non ci sono auto, carrelli della spesa e ingiustizie, ma solo anime.


Torna in cima alla pagina


La Cerimonia Funebre

“E’ morto il mio cane.” disse, un martedì d’agosto, una donna alla voce di uomo che rispondeva al telefonino del cimitero per animali “Ve lo posso portare?”

“Al momento non c’è nessuno, signora.” rispose la cornetta “Io sono via per qualche giorno, e il mio aiutante oggi è fuori a sbrigare alcune faccende. Arriverà intorno alle tre.”

“Va bene, glielo porto per quell’ora.”

“D’accordo, lo avviso io.”

Dopo pranzo, sotto il solleone, la padrona del quattrozampe partì per l’ultima dimora dell’amato, giungendo sul posto per il tempo previsto. Dopo un po’ sentì suonarle il cellulare. Era l’uomo chiamato in mattinata, il quale le disse che il treno con cui il suo aiutante doveva rientrare era in ritardo, sicché questi non sarebbe riuscito a essere lì prima delle cinque; le chiese se ce la faceva ad aspettarlo. La donna, controvoglia, rispose che l’avrebbe aspettato

A pomeriggio inoltrato, il sole ancora battente, l’addetto sopraggiunse trafelato, già sapendo, essendo stato avvisato dal suo titolare, che al suo arrivo avrebbe dovuto seppellire un cane. L’uomo si scusò con chi sapeva averlo a lungo pazientato, con questo caldo, poi; disse che con le ferrovie sai quando parti, ma non quando arrivi. Se poi parti pure in ritardo, l’arrivo diventa un miraggio, qualcosa a cui più ti avvicini, e più si allontana. Quindi aprì le gabbie che contenevano gli animali, vivi, alloggiati di fianco al cimitero, per dare al luogo un tocco di vita, di allegria. Galline, pulcini, oche, anatre, pavoni, finanche una coppia di asini. Dopodiché diede inizio alle operazioni di sepoltura.

L’uomo andò a prendere il quattrozampe dal baule dell’auto, lo cinse con un telo chiaro e lo chiuse in una cassetta di legno, poi si avviò verso la distesa delle tombe. Al suo seguito la donna, il cane del cimitero, un trovatello adottato che soleva accompagnare, a mo’ di necroforo, ogni nuovo arrivo al grande condominio di terra fino al proprio loculo, e la processione di anatre, oche, galline, pulcini, pavoni e i due asini. Un corteo funebre compunto, contrito, che di tanto in tanto rilasciava qualche verso, come per commentare con una nota di tristezza l’infausto evento, o formulare espressioni di cordoglio alla compagna del defunto, o solo esprimere a voce alta un pensiero in sua memoria. Ma forse pure d’insofferenza verso quel calore tossico. Una processione listata a lutto, se non nei colori, nelle movenze, nelle posture, e, cosa ancor più incredibile, nei visi, negli occhi sbarrati, dove pareva leggersi una pena per chi se n’era andato che sembrava potersi espiare solo spartendo il dolore di chi restava.

La donna era incredula di fronte a tanta sofferta partecipazione; mai avrebbe immaginato per il suo cane funerale più solenne, più sentito.

Giunti sulla tomba, mentre l’uomo deponeva per terra la cassetta e, preso un badile, cominciava a scavare per seppellirla, il corteo si dispose disciplinatamente in cerchio intorno alla buca che si preparava ad accogliere il quattrozampe, in un silenzio rotto solo dal gorgoglìo di trattenuti singhiozzi. Solamente alcune galline approfittavano di qualche lombrico, che la terra rimossa portava a galla, per mangiarselo. Ma era l’unica distrazione che si concedeva quella dolente corte circolare.

La padrona del cane era commossa, piangeva nel vedere una tal folla condividere il suo strazio. Tornò a casa triste per aver seppellito il suo miglior amico, ma felice per la cerimonia funebre in suo onore. Una cerimonia che non aveva mai visto neanche in chiesa. Nemmeno in quella della Certosa, la città dove seppelliscono gli uomini. Un funerale bellissimo, da augurare a chiunque si voglia bene. Da augurare a lei stessa.

Il giorno dopo la donna chiamò il titolare del cimitero; gli disse che era un benefattore, una persona speciale, un santo. Si raccomandò di ringraziare il suo addetto, perché in vita sua non aveva mai assistito a niente del genere. L’uomo ascoltò in silenzio e ringraziò a sua volta, senza riuscire a spiegarsi il motivo di tanta meraviglia. Poi telefonò al suo aiutante e gli chiese cosa era successo di così straordinario il giorno prima, poiché la pratica della sepoltura era sempre la stessa, e nessuno si era mai meravigliato tanto. Forse la poveretta era stata colta da un’insolazione, vista la protratta esposizione agli infuocati raggi solari.

Quegli rispose ricordandogli la consuetudine che aveva coi suoi animali, di non dar loro da mangiare un giorno la settimana, il lunedì, per depurarli con una giornata di digiuno – benché l’uomo al telefono non avesse mai capito da cosa esattamente dovessero essere depurati.

Ieri, martedì, si era dimenticato di dar loro da mangiare la mattina, prima di partire, e nel corso della giornata dovevano aver sicuramente finito l’acqua nelle ciotole, e quando è tornato, in ritardo per colpa del treno, col cane da seppellire subito e gli animali assetati e affamati, si è trovato a mal partito, senza sapere cosa fare. E così ha aperto le gabbie agli animali, se non altro per farli sgranchire, ha seppellito il cane, e solo dopo ha dato loro da bere e da mangiare. Chiaro che, finché non hanno bagnato la gola e riempito la pancia, non l’hanno mollato un istante, e l’hanno seguito passo passo, come attratti da una calamita, per tutti i passaggi della sepoltura.

Forse la donna si è accorta, chiese l’addetto al titolare, che gli animali non avevano ancora mangiato né bevuto?


Torna in cima alla pagina
Prossime Presentazioni

“A pungere sono le femmine”
Sabato 5 ottobre alle ore 17 presso “Barbara Durante Editore” via del Sasso, 4 - Lucca

 


contatti facebook
fondo Website designed by Pietro Lorenzi Website designed by Pietro Lorenzi